martedì 30 ottobre 2007

La felicità secondo Seneca

(parte 3°)

Cerchiamo dunque un bene non apparente ma vero, che sia costante e bello nella sua intima essenza: è questo che dobbiamo sprigionare e portare alla luce. Non è lontano, lo troveremo, ci basta solo sapere dove tendere la mano. E invece continuiamo a brancolare nel buio, senz'accorgerci di ciò che pur ci sta vicino e inciampando proprio in quello che desideriamo.

Ma per non trascinarti in un tortuoso giro di parole, tralascerò le opinioni degli altri (che sarebbe troppo lungo elencare e discutere) e ti esporrò la nostra: dico «nostra» non perché io mi senta legato ad alcuno dei grandi stoici, giacché anch'io ho diritto ad un mio parere personale, ma perché di loro uno lo seguirò, un altro lo inviterò a puntualizzare il suo pensiero, e alla fine, magari, interpellato, non respingerò nessuna delle idee di coloro che hanno parlato prima di me, e dirò: «In più io la penso così». Intanto, come tutti gli stoici, io seguo la natura: è segno di saggezza non allontanarsene ma conformarsi alle sue leggi ed al suo esempio.

Felice è dunque quella vita che si accorda con la sua propria natura, il che è possibile solo se la mente, in primo luogo, è sana, ma sana sempre, in ogni momento, poi se è forte ed energica, decisamente paziente, capace di affrontare qualsiasi situazione, interessata al corpo e a quanto lo riguarda ma senza ansie e preoccupazioni, amante di tutto ciò che adorna la vita ma con distacco, disposta a servirsi dei doni della fortuna ma senza farsene schiava.

Comprendi bene - anche se non aggiungo altro - che una volta eliminate tutte le cause di irritazione e di paura, ne conseguono una calma interiore ed una libertà ininterrotte: infatti ai piaceri e agli allettamenti, che sono fragili e di breve durata, e che ci nuocciono col loro solo profumo, subentra una gioia incommensurabile, salda e costante; e poi la pace e l'armonia dell'anima, l'elevatezza e la bontà: la cattiveria è sempre frutto di una malattia.

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