venerdì 2 novembre 2007

La felicità secondo Seneca

(parte 4°)

Della felicità si possono dare anche altre definizioni, giacché uno stesso concetto può essere espresso con parole diverse. Come un esercito che si schieri ora in larghe file, ora in uno spazio ristretto, oppure a semicerchio o frontalmente, ma comunque si disponga non cambiano la sua forza e la sua volontà di combattere per la medesima causa, così la definizione della felicità può essere ora ampia e particolareggiata, ora breve e concisa.

Sicché possiamo dire, per esempio, che essa «consiste nel disprezzare i doni della fortuna e nel compiacersi della virtù», o che «è una forza invincibile dell'animo, esperta della vita, serena nell'agire, piena di umanità e di premure per gli altri», senza con ciò mutarne il concetto o la sostanza.

E possiamo ancora dire che felice è colui per il quale non esistono il bene ed il male ma soltanto uomini buoni e uomini cattivi, che segue solo ciò che è onesto e si compiace unicamente della virtù, che non si accende né si avvilisce nelle alterne vicende della sorte, che non conosce bene maggiore di quello che può procurarsi da solo, e per il quale il vero piacere è il disprezzo del piacere stesso.

Se vogliamo allargare il discorso, possiamo usare altre forme, sempre nuove e diverse, ma la sostanza non cambierà. Nessuno, per esempio, c'impedisce di dire che la felicità è un dono proprio di un animo libero, elevato, intrepido e costante, lontano da timori e desideri, per il quale l'unico bene è l'onestà e l'unico male la disonestà, e tutto il resto non è altro che uno spregevole insieme di cose che non tolgono e non aggiungono nulla alla felicità, la quale né diminuisce né si accresce col loro andare e venire.

Un simile presupposto comporterà necessariamente, anche se noi non lo volessimo, una serenità ininterrotta, una gioia che sgorga dal profondo, intensa e duratura, perché gode di un bene che è suo e non desidera se non ciò che strettamente le appartiene. Per quale motivo non dovremmo credere che un tale stato possa compensare perfettamente i moti meschini, futili e passeggeri del nostro misero corpo? Quando uno è schiavo del piacere lo è anche del dolore, e non c'è schiavitù più dannosa e più trista che nel soggiacere ora all'uno ora all'altro di questi due tirannici e capricciosi padroni.

Bisogna quindi liberarsene, e l'unica via sta nell'indifferenza di fronte alle mutevoli vicende della sorte: allora nascerà quell'inestimabile bene, la serenità di una mente sicura e decisa, l'elevatezza morale, e, una volta eliminato ogni timore, la gioia immensa e senza fine, proveniente dalla conoscenza del vero, l'affabilità e l'espansività; e tutti questi beni ci diletteranno non in quanto tali ma in quanto doti o qualità proprie dell'animo.

Due tirannici e capricciosi padroni. Bisogna quindi liberarsene, e l'unica via sta nell'indifferenza di fronte alle mutevoli vicende della sorte: allora nascerà quell'inestimabile bene, la serenità di una mente sicura e decisa, l'elevatezza morale, e, una volta eliminato ogni timore, la gioia immensa e senza fine, proveniente dalla conoscenza del vero, l'affabilità e l'espansività; e tutti questi beni ci diletteranno non in quanto tali ma in quanto doti o qualità proprie dell'animo.

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